2016 Abruzzo in bdc

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11.5 mer Varese – Pescara – Francavilla al M. – Chieti – Guardiagrele   km 55 disl m 1200

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12.5 gio Guardiagrele –  Palena (band. arancione 2015 tci) – Passo d. Forchetta – Pescocostanzo –  Sulmona km 100 disl m 1600 (Giro Maiella)

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 13.5 ven Sulmona – Anversa d. Abruzzi – Scanno – 3 Pescasseroli km 80 disl m 1600

14.5 sab Pescasseroli – Popoli – Navelli  80 km disl m 1300

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15.5 dom Navelli – Castel del Monte   – Fonte Cerreto – L’Aquila (Campo Imperatore e Gran Sasso) km 100 disl m 17005 Navelli-L'Aquila

16.5 lun  L’Aquila – Rocca di Mezzo – Ovindoli – Avezzano (Parco regionale Sirente-Velino  + Piana del Fucino) km 90 m 10006

17.5 mar Avezzano – Tagliacozzo – Arsoli – Tivoli km 85 disl m 500 + Treno Tivoli-Roma7a

Roma St. Tiburtina-P.za dei Quiriti km 87b

18.5 mer Treno Roma-Milano-Varese

Pedalando nel Piccolo Tibet

abruzzotot-copiaLa natura dell’Abruzzo, terra di orsi e di scrittori, ha un vestito che la gente di qui non le aveva mai visto addosso in primavera. Le conifere che punteggiano i costoni della Maiella e del Gran Sasso fino a una certa quota, perché poi tutto scompare a causa dell’implacabile furia dei venti, sono come bruciate. Il verde è stato coperto da un velo uniforme di ruggine, il colore dell’inverno, e siamo a maggio inoltrato. La colpa è di una gelata micidiale: c’è stata neve mista a grandine, le temperature sono crollate, pini, abeti e soprattutto faggi, nella stagione dei nuovi germogli, hanno subito un ictus collettivo. Passata la bufera, il paesaggio si è risvegliato dal coma invecchiato, infeltrito, ingiallito.

Stiamo pedalando da quattro giorni, partiti dal mare di Pescara, subito in quota verso Chieti, tappa a Sulmona, la città dei confetti e di Ovidio, poi a Pescasseroli, il cuore del parco nazionale, luogo natio di Benedetto Croce. Ci dirigiamo verso la nostra Cima Coppi che è Campo Imperatore, 1760 metri d’altitudine. E se qualcuno ci spiasse dall’alto vedrebbe dodici puntini, tanti sono i protagonisti della spedizione, che si muovono in fila indiana nell’immensità. Sì, l’immensità: chilometri di nulla, vastissime praterie abitate soltanto da qualche pastore con il suo gregge, nessun punto di riferimento ai quattro punti cardinali. Solo orizzonti sfumati. Ti senti solo, ti senti gnomo, ti senti bene.
All’improvviso spuntano laghetti che si sono formati chissà per quale magia sotterranea, mentre incombono sopra di noi cime rocciose sulle quali, tra gole e solchi profondi, la luce del sole si riflette in mille modi diversi. Sembra di stare in un piccolo Tibet trapiantato negli Appennini dove una linea retta è sempre qualcosa che ha una salita e una discesa. Scriveva Giorgio Manganelli, un altro del clan dei letterati locali: “Può una cosa piatta essere abruzzese?”
Tuffo nella storia: qui, nella camera numero 220 dell’Albergo di Campo Imperatore, venne tenuto prigioniero Benito Mussolini dal 28 agosto al 12 settembre del 1943, sino alla liberazione per opera delle forze armate tedesche. Su questi vasti territori atterrarono e ripartirono aeroplani delle SS e il dittatore veniva fotografato col il bavero del cappotto grigio alzato e con la consapevolezza della fine stampata sul volto. L’albergo è meta perenne di nostalgici e curiosi. D’inverno si raggiunge solo con la funivia del Gran Sasso d’Italia partendo dalla stazione di valle di Fonte Cerreto.

L’oro rosso. – La nostra ascesa è cominciata col sole da Navelli, un paese turrito al centro di una pianura che racchiude un prezioso giacimento: le vaste coltivazioni di zafferano, l’oro rosso dell’Abruzzo. Solo chi sa che occorrono 250mila fiori e circa cinquecento ore di lavoro per mettere assieme un chilo di questa spezie violacea importata dalla Spagna, capisce perché mezzo grammo, venduto in un vasetto, costa tra i quindici e i venti euro. “Ma ci possono condire almeno quaranta pietanze”, dicono i contadini.
E’ un rifugio dell’anima Navelli, sormontata da una cattedrale che porta ancora i segni del terremoto, abitata da tanti stranieri tra i quali scorgiamo in una pausa un ingegnere tedesco intento a potare rose davanti a un antico casale. Com’è capitato qui? Per una folgorazione di quelle che cambiano la vita di un uomo. Per l’attrazione fatale di un borgo tra i più belli di quest’Italia bistrattata da chi ci è nato: gli stranieri la amano, ci si trasferiscono, acquistano a prezzi abbordabili antiche edifici che i locali hanno lasciato andare alla rovina e li fanno risplendere.
Chi è venuto da queste parti e fare la guerra avrebbe dovuto ripudiare per sempre luoghi maledetti, di morte e di odio, e invece ci ha lasciato il cuore. Paradossale. E’ come innamorarsi del proprio nemico, se non del proprio carnefice. A Pescocostanzo, una trentina di chilometri da Sulmona, cuore di un altopiano situato a 1395 metri d’altitudine, una storia di vita vissuta ci ha spiegato l’apparentemente inspiegabile. Visitavamo il centro storico con le pavimentazioni di marmo bianco e nero e le case sollevate tre metri sopra strada: vi si accede da una scaletta di pietra dura. La messa da queste parti si celebra col rito ambrosiano per una ragione forse legata a frotte di scalpellini, scultori, pittori e architetti emigrati dalla Lombardia al tempo delle signorie: i Colonna, i Sivieri, i Testa. All’ingegno di questi maestri si deve una maestosa basilica- collegiata col un solenne portale che domina una salita intervallata da gradoni. Dorothy fa ciao con la mano alla comitiva su due ruote che si ferma e la circonda. Da giovane doveva avere capelli biondissimi che le incorniciano un volto ancora fresco e due occhi azzurri come il mare dei Caraibi. E’ inglese, Dorothy, parla l’italiano in maniera perfetta, ci presenta il marito Frank che cammina appoggiandosi a un bastone di foggia signorile. Suo padre combatté tra questi monti martoriati dai bombardamenti alleati. Conobbe tanti partigiani, storicamente i primi ad organizzarsi nel Paese che, rovesciato il regime, non aveva ancora vinto la battaglia per la libertà. Di questo primato in Abruzzo sono molto fieri. Suo padre era un ufficiale di Sua Maestà Britannica mandato a dirigere operazioni di guerra in un territorio aspro, ricco di insidie, lontano dalle città, esposto alle facili rappresaglie del nemico. Quando tacque il cannone, il soldato Rayan, ci piace chiamarlo così, tornò in patria con il cuore gonfio di nostalgia e di gratitudine per l’Abruzzo, i suoi uomini caparbi, le donne coraggiose votate a condividerne i destini. Resistette pochi anni al canto delle sirene italiche. Poi prese la famiglia e decise che voleva vivere e morire nei posti dai quali era riuscito ad andarsene salvando la pelle. Dorothy ha seguito le orme del padre: non si è più mossa da Pescocostanzo e a tutti i turisti che si arrampicano fin quassù, non sapendo di trovarvi tesori d’arte tanto preziosi, racconta il suo orgoglio di sentirsi italiana.

Attenti a Yoghi. – Il bello della bici non è solo l’avventura atletica che può lasciare il tempo che trova se interpretata da una pattuglia di pantere grigie. Il bello della bici è questo infilarsi, per curiosità o per caso, in storie che scivolerebbero inosservate se il girovagare rallentato rispetto a quello di un mezzo di trasporto a motore, non invitasse il viandante ad approfondire, a volte a trovarsi spettatore di divertenti siparietti.
Fa un certo effetto imbattersi in cartelli che invitano a moderare la velocità per rispetto proprio ma anche degli orsi marsicani la cui sagoma campeggia stilizzata su fondo giallo. Normalmente questi avvisi raccomandano attenzione per l’incolumità di bambini in uscita da una scuola. Qui annunciano che può capitare di trovarsi di fronte a qualche plantigrade sbucato dalla foresta per vedere l’effetto che fa mettere le zampe su una dura striscia d’asfalto.
Pericolo reale? Pompeo, un omone extralarge con la faccia rubizza, dice la sua a un bivio della statale 17 tra Pescasseroli e Ortona dei Marsi: stiamo puntando su L’Aquila dopo aver scalato, il giorno prima, il Passo Godi e aver benedetto l’intuizione di portarci appresso vestiario invernale. Pioveva e faceva freddo: le locande avevano i camini accesi. “E allora questi orsi dove sono? Qualcuno li vede, li incontra e come si comporta nella malaugurata circostanza?”. La domanda cela la speranza di essere tranquillizzati. A Pompeo la parola “malaugurata” provoca quell’ironia innata nel carattere degli abruzzesi. “Guardi”, dice, “manca solo di vedere qualcuno di questi animaloni scendere in paese vestito da postino e recapitare lettere raccomandate. Loro sono innocui, non fanno male a nessuno. Sa che penso? Mi fanno più paura gli orsi che di zampe ne hanno due. Come gli uomini. Non parliamo delle donne”. Sarà.
D’altra parte entriamo e usciamo da parchi protetti. Attraversiamo per chilometri luoghi solitari. Sappiamo dai libri che questa terra verticale e viscerale, forte e gentile, è popolata da cervi, camosci, lupi, volpi, aquile reali. Piccolo grande regno di esseri selvatici verso il quali le popolazioni coltivano rispetto, ma anche piacere di convivenza pacifica e abitudinaria. Dice niente la transumanza? Gabriele D’Annunzio l’ha resa immortale: «Settembre, andiamo. È tempo di migrare/ Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori/ lascian gli stazzi e vanno verso il mare/ scendono all’Adriatico che verde è come i pascoli dei monti».
Quanta poesia. E quante trame misteriose nei paesaggi che sono stati costruiti da scossoni tellurici, da erosioni d’ acque, da frane e accumuli. Questa terra non sta mai ferma. Ha le viscere in eterno subbuglio.
Da Anversa degli Abruzzi, dominata da un castello nel quale il Vate ambientò “La Fiaccola sotto il moggio”, si percorre la spettacolare strada delle Gole del Sagittario. E’ un canyon scavato con pazienza nei secoli dal fiume omonimo, ha fenditure e tunnel surreali. La strada sembra conformarsi alla morfologia del luogo e diventa anch’essa un serpente. Traffico zero, panorami tutti in diagonale, le acque del Sagittario sono di un blu intenso. S’incontra l’Eremo di San Domenico, una grotta a picco su un lago formatosi per l’allargamento del fiume. Più avanti c’è il paese di Scanno di cui s’invaghì Cartier-Bresson cominciando a fotografarlo con la sua Nikon e riempiendo il mondo delle immagini di questo presepietto rinascimentale posato su uno sperone di roccia.
L’Abruzzo è fatto per l’immortalità: ci hanno girato decine di film, da “Lo chiamavano Trinità” a “Il deserto dei Tartari” fino a “The American” che George Clooney ambientò nel piccolo mondo antico di Castel del Monte, sotto Campo Imperatore, per aiutare L’Aquila colpita dal terremoto del 2009. L’Abruzzo è fatto per la buona tavola: caciotta al tartufo, salame di maiale nero, zafferano e pecorino, pasta alla chitarra condita con tutti saperi e i sapori di una cucina antica. L’industria agroalimentare è fiorente.

C’è il gusto dello stare insieme da queste parti. Spingendoci verso Avezzano, ultima tappa prima della fine del tour a Roma, costeggiando le immense piantagioni ricavate prosciugando il lago Fucino con un miracolo ottocentesco d’ingegneria idraulica, siamo capitati per caso in una sagra di paese di quelle fatte con la semplicità di un sorriso e le armonie di una fisarmonica mini che si allarga e si stringe, si apre e si contorce, aspira e respira tra le mani di ragazzi che non hanno più di sedici anni. Si chiama organetto abruzzese lo strumento. Suona una nota sola, il Re: l’abilità sta nel declinarla con l’estro dell’anima. Le canzoni popolari sono quelle di sempre. Tutto sommato la felicità è una piccola cosa. (Gianni Spartà)

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