2014 Sardegna

super

fotosardegna copiaIn sella all’isola che non c’è. − In tutti i luoghi del mondo c’è un minuto dopo l’ora del tramonto in cui le cicale smettono di cantare nei mesi estivi, pecore e armenti di ricordare con i loro versi al forestiero di città i suoni naturali della vita. Nella campagna tra l’Ogliastra e il Mandrolisai, nomi antichi di regioni della Sardegna, in un rifugio dell’anima chiamato “Su zeminariu” – poi spiegheremo perché – accade anche dell’altro: in quel momento, se si capita nei giorni giusti, spunta la luna dal monte. E il pensiero corre alle launeddas, strani strumenti a fiato, che anni fa resero famosi i Tazenda nelle canzoni di Pierangelo Bertoli.

Questa miscela di luci che si accendono e di belati che si spengono è il primo impatto con una terra aspra e misteriosa e col suo paradosso: ci vieni con l’aspettativa di trovare quello che cercavi, te ne vai con la certezza che il verosimile ti ha nascosto la verità. Ha scritto Alberto Masala: lasciare l’isola che non si vede, forse che non c’è, è l’unico modo serio di restarci. Pane per sociologi, filosofi, esploratori di anfratti esistenziali. Per sette pedalatori sbarcati dal continente, il borgo di Atzara, pochi abitanti contadini, centro esatto dell’isola, è il simbolo di una progressione numerica: sei giorni su una bici, settecento chilometri lineari, ottomila metri di dislivelli. Un viaggio d’altri tempi, di prima del motore. Un’immersione piena in una fetta d’Italia vista alla moviola. Da una sella. Da un manubrio. Da un computerino che ha misurato cento salite e altrettante discese. Da un furgone che trasportava i bagagli. Da aziende agricole sperdute tra le colline e alberghetti piantati sulla costa. E da inevitabili incontri con turisti americani, russi e tedeschi per i quali questo Paese, nonostante i guai di mille ruberie pubbliche e private, continua a essere un paradiso da visitare. E magari da comprare: il comunismo interno ha partorito il consumismo d’esportazione. I cartelli che annunciano la vendita di cascinali, ville e barche sono scritti in italiano, per convenzione, nelle lingua di Mosca, per convenienza. Già: questo è il diario di viaggio di sette ciclisti categoria over, tesserati e seguaci della Sant’Ambrogio, società che ha la sua storia a Varese. Nomi: Mariano Lazzati, il capitano,  Daniele Gusmeroli, il navigatore, Vittorino Munari, Sergio Rossi, Roberto Stringhi, Angelo Ganna e chi firma queste note. Siamo partiti da Golfo Aranci, siamo scesi a sud lungo la costa orientale fino a Dorgali, ci siamo immersi in una selva oscura di lecci e sughere, ne siamo usciti a ovest rivedendo il mare a Bosa, abbiamo chiuso il cerchio di nuovo a nord sulla rotta Stintino-Porto Torres-Santa di Gallura-Porto Cervo, raggiungendo la nave del ritorno. Quante immagini: l’aratro ancora trascinato dai buoi in un vigneto secolare prima di Orosei, i murales ideologici di Orgosolo e Fonni, la leggenda di Mesina, il bandito-gentiluomo. Chiedete di lui tra i paesi che fanno corona alle rocce del Gennargentu, le Dolomiti della Sardegna, e vi citeranno il “Manuale della sopravvivenza in Barbagia” una specie di galateo del posto: se questo mondo fosse fatto di “balentes”, sarebbe un gran bel mondo. Chi sono i “balentes”? Persone vendicative, permalose, prepotenti, pronte a passare alle vie di fatto. Come è stato Mesina negli anni del furore. Ma le connotazioni negative si stemperano nelle positive: fermezza di carattere, nobiltà d’animo, obbedienza a un codice morale che per secoli ha governato questa regione vissuta ai margini dei processi storici della nazione.

20140523_130836Fatica e panorami. − Bollettino dei pedalanti: si parte alle nove con le borracce cariche di acqua e integratori e con barrette energetiche nelle tasche. Il furgone di scorta, guidato dal Cireneo Gabrio da Induno, anticipa la comitiva, ma a tutt’altra velocità. E’ una sicurezza psicologica. Nulla di eroico: 135 chilometri la tappa più lunga, meno di sei ore in sella. Ma il su e giù impone di essere allenati per non scoppiare. La fatica è alleviata dai panorami: scogliere fantastiche a picco lungo la strada che porta ad Alghero, macchia mediterranea con profumi inebrianti, pietre nere, ginestre gialle, steli di acanto strapazzati dal vento. Un maestrale per fortuna leggero. Soste brevi per i rifornimenti, scelta di  percorsi poco trafficati. Il metodo è collaudato: siamo stati alle Canarie sul Teide, in Sicilia sull’Etna, abbiamo fatto una Tirreno-Adriatico. Dicevamo di “Su Zeminariu” dove ci siamo fermati una notte: è una vecchia fattoria posta in una valletta a lato di una strada che dal centro di Atzara s’arrampica su una montagna. Maria, 78 anni, nata e cresciuta qui, tra orti e allevamenti, mai visto un supermercato, ci spiega che una volta questa era la dispensa solidale di un seminario situato a qualche chilometri di distanza. Chi voleva sostenere i futuri sacerdoti, chi aveva di più, concentrava nel luogo carni, formaggi, verdure, frutta affidandoli alla oculata gestione di alcune perpetue e dei loro mariti, lavoratori della terra. Ogni giorno le cucine sfornavano pasti, gli armadi si riempivano di alimenti. C’erano stalle, pollai, un pozzo prezioso. Sì, prezioso perché l’acqua in Sardegna è un’ossessione storica. Non ce n’è mai stata abbastanza in Sardegna, continua a non essercene e i laghi che si incontrano girando per l’isola sono tutti artificiali, tranne uno, il Baratz. La gente nei tempi passati minacciava le divinità in carica, accusate di non mandare la pioggia e di flagellare le contrade con calura rovente e vento crudele. Nel corso di  cerimonie liturgiche, macabre e suggestive insieme, i fedeli arrivavano a immergere un crocifisso in un pozzo e lo tenevano a bagno fino a quando l’acqua non fosse arrivata dal cielo. Fede e superstizione univano in un rito propiziatorio e liberatorio gli abitanti dei paesi della Barbagia e dei suoi dintorni. Alle luce di questo vissuto, pare una beffa quanto è accaduto sei mesi fa tra Olbia e Mamoiada: c’è stata una terribile alluvione  che ha sventrato ponti, divelto strade, scaraventato alberi e detriti nei fiumi. E questi proiettili, spinti dalla corrente, hanno seminato disastri e morte.  Proprio qui questo inferno! Proprio dove la sete e la siccità hanno sempre tormentato la gente delle campagne. Così è. Di tanto in tanto ci capitano deviazioni sotto ponti interrotti dalla furia degli elementi in piccoli centri che hanno nomi onomatopeici Ortueri, Paulilatino, Santu Lussurgiu, Cuglieri. Di tanto in tanto incrociamo i binari di una ferrovia interna che per anni la Sardegna ha gestito in autonomia. Gente tosta da queste parti. Isolani duri e puri, suscettibili e fieri di aver fatto da sé per molti anni. Quando si sono fidati degli altri sono arrivate le fregature: il petrolchimico è stata un’illusione breve nei dintorni di Porto Torres, investimenti e devastazioni negli anni ’60 per una ricchezza che pareva durevole. Poi la dolorosa ritirata che si è lasciata alla spalle le carcasse arrugginite di centrali e raffinerie.

La villa di Dudù. − Da Bosa Marina, provincia di Oristano, subregione della Planargia, comincia il raid lungo la costa occidentale. Questo è l’unico centro della Sardegna, davvero grazioso con le sue torri e i suoi bastioni, edificato accanto all’estuario di un fiume: il Temo. Borgo antico arricchito dalla famiglia toscana dei Malaspina, belle chiese, ponti, movida serale. In una specie di magazzino che s’affaccia sul corso principale fanno le prove con chitarre e tastiere quattro “pantere grigie” imprigionate nella giungla della nostalgia. Suonano canzoni dei Dik Dik e dei Camaleonti, danno il meglio di sé con la versione originale di Bocca di Rosa, doveroso omaggio alla reliquia De André.

La pattuglia ciclistica, capitata lì per caso, è invitata a scendere nell’arena canora. Spiacenti: ci manca “the voice”, Mimmo. Con lui avremmo fatto l’alba e i vicini avrebbero chiamato la polizia. La band ha un nome morettiano: Caos calmo. Dal terzo giorno pedaliamo di nuovo in riva al mare: Stintino, Castelsardo, la Gallura con i suoi sassi arrotondati dal vento e modellati fino a immortalare figure di animali, profili di personaggi famosi. Qui finisce la Sardegna ruspante e comincia la vippaiola. Palau, Porto Cervo. Vuoi non dare un’occhiata alla madre di tutte le superville? “Scusi, per andare dove dobbiamo andare…” Totò e De Filippo senza provole e in braghe da ciclista nel santuario fighettone di Porto Rotondo. Ma certo, il signore ha capito che cosa cerchiamo ed è pure di Gavirate. Dobbiamo andare di là, girare attorno alla rotonda, imboccare una salitella e guardare verso il mare, arrivati in cima. Qui per una ventina d’anni c’è stato un gran via vai di auto blu e rosa. Ministri e olgettine. Oggi, tra quella mura là in fondo, viene a scodinzolare Dudù (Gianni Spartà,  Pedalando nell’isola che non c’è, Lombardia Oggi, 29 giugno 2014, pp. 18-19).

1 tappa 20.5 Olbia-Dorgali km 115 m 1200 Hotel Il Querceto

2 tappa 21.5 Dorgali-Atzara km 105 m 1900 Agriturismo Su zeminariu

3 tappa 22.5 Atzara-Bosa Marina km 91 m 1347 Hotel Al gabbiano

4 tappa 23.5 Bosa Marina-Stintino km 110 m 1350 Hotel Ancora

5 tappa 24.5 Stintino-Santa Teresa di Gallura km 135 m 1250 Hotel Diana

6 tappa 25.5 Santa Teresa di Gallura-Olbia km 105 m 1200 Traghetto

Per saperne di + visitare www.sardegnaturismo.it

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