2012 Sicilia orientale

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In bici con Montalbano.  — Vedendolo prendere a forchettate un piatto di spaghetti ai ricci, ci è venuta voglia di chiamarlo a squarciagola come fa Catarella nella fiction tv, catapultandosi fuori dalla sua guardiola di questurino: “Dottòre, dottòre…”  con le “o” allargate al massimo. Ma gli avremmo “scassato i cabbasisi” e ci siamo trattenuti. Era lì in braghe da bagno e camicia aperta su petto, seduto al tavolo di un ristorantino sulla spiaggia; si godeva la vista di un marte superbo, aveva al suo fianco la bella compagna Luisa Ranieri, la figlioletta Emma a una tata creola con i capelli lisci e neri più dell’ebano.

Perché rovinare il quadretto intimo? Meglio solo un saluto: “Buongiorno commissario”. E lui, gentile ma indagatore : “Buongiorno, buongiorno. Ciclisti del Nord, eh…” “Beh sì. Anzi no: c’è anche qualche siciliano. Di nascita. Lo può riconoscere da gambe e braccia già abbronzate”. Pedalavamo verso la casa di Montalbano, settimane fa, e vedevamo all’orizzonte, la torre bianca del faro di Punta Secca, tra Ragusa e Agrigento, quando si è materializzato lui “personalmente di persona”: Luca Zingaretti in formato famiglia. Combinate l’incontro e non riesce. Non immaginatelo e vi capita. Preparata la torta, sei giorni a ruota libera tra scogli e ginestre, la ciliegina ce l’ha messa sopra il caso. O il volere degli dei che da queste parti è stampato sulle colonne doriche della Valle dei templi, nel nome della barca dei Malavoglia, la Provvidenza, nel dramma intimo del Bell’Antonio di Brancati. Imprevedibile la vita: stai contemplando da una sella i luoghi di Montalbano, pensi a come ha fatto Andrea Camilleri a riprendere il racconto della sicilianità là dove l’avevano lasciato Pirandello e Verga e un raid in bicicletta, 762 chilometri, diventa improvvisamente un tour di suggestioni letterarie. Di quelle che gli operatori turistici vendono a tedeschi e svedesi dopo che il commissario curioso e geniale ha riempito di sé la fantasia di mezz’Europa, diventando una specie di icona. Ci va di raccontavi l’avventura siciliana a due ruote cominciando da qui. Dalla costa meridionale che nemmeno le sciagurate installazioni di impianti petrolifere, ad Agusta e Gela, sono riuscite a deturpare completamente. Dalle coltivazioni di pomodori che si perdono a vista d’occhio attorno a Pachino e a Capo Passero. Da arance e limoni che marciscono sugli alberi nella piana di Catania: raccoglierli non conviene più. Dal vento di libeccio che soffia tra le bifore di una torre campanaria sotto la quale si apre un rifugio dell’anima: la piazzetta assolata di Marzamemi dove alle dieci del mattino i pescatori si raccontano la notte trascorsa al largo.

I luoghi della fiction. — Le storie di Montalbano sono ambientate a queste latitudini, ma sbaglierebbe chi volesse individuare un luogo preciso, unico, perché i produttori hanno costruito il set della fiction pescando il meglio di piazze, municipi e cattedrali in una zona vasta. “Esiste  una Vigàta romanzesca, che è quella del mio paese”, ci spiegò Andrea Camilleri quando venne a Luino per ricevere il premio Chiara alla carriera , “e poi una Vigàta televisiva, provincia di Montelusa, che è la somma di Scicli, Modica, Marinella, Ragusa, Ibla, Punta Secca e il Pisciotto. Ora mi succede che quando scrivo un nuovo episodio rischi di influenzarmi non tanto il commissario della fiction, quanto piuttosto il paesaggio in cui i registi lo fanno muovere”. Natura selvaggia e spicchi di barocco. C’è una località con un nome intrigante: Donnalucata da non confondere con la Donnafugata del Gattopardo, altra città di fantasia, nella realtà Palma di Montechiaro luogo d’origine del titolo feudale della famiglia Tomasi di Lampedusa. Le bici corrono su strade dominate da cartelli di colore marrone che segnalano al viandante un’overdose di arte e di storia. Basta una sosta a una fontana per avvistare, in fondo a un vicolo, la scalinata solenne di una chiesa costruita con la pietra arenaria. E’ sufficiente una deviazione di qualche chilometro per immergersi nel mistero di una riserva naturale. Paesi all’apparenza insignificanti, svuotati dall’emigrazione, abitati completamente solo d’estate quando figli e nipoti tornano a trovare genitori e nonni, nascondono tesori che nessuno è riuscito fin qui a classificare e a valorizzare. E’ la vera ricchezza del Belpaese, quasi sempre trascurata. All’indomani di un’alluvione, di un terremoto, si scopre che basterebbe un terzo delle risorse sacrificate all’edificazione di  ossessionanti rotonde per salvare dalla rovina un palazzo o un campanile destinati a sbriciolarsi se la terra trema. Ma sono lacrime di coccodrillo. Quando non eravamo tutti con l’acqua alla gola, come in questo triste scorcio di terzo millennio, qualcuno diceva che ci sarebbe voluto un secondo piano Marshall per mettere al sicuro immensi patrimoni nel Mezzogiorno d’Italia. Già: il pensiero, prima del big bang finanziario, correva agli americani sbarcati su queste sponde con la regia del Padrino. Non ne parla più nessuno e Cassibile, sfiorata nel nostro viaggio, evoca solo il luogo in cui gli inviati di Badoglio firmarono l’armistizio.

E apparve Malèna. — Noto, prima tappa dopo 130 chilometri, è la testimonianza dolorosa di questo genere di ferite ragionevolmente evitabili. Per anni il duomo barocco è rimasto senza testa, con quella cupola dimezzata dal sisma, tuttora impalcature e puntelli sostengono balconi intarsiati  con figure mitologiche nella via Ruggero Settimo che a maggio i commercianti tappezzano di petali di rosa. La chiamano  l’Infiorata. Ci ha incuriosito un giovane che cenava solo, in mezzo alla strada, seduto a una tavola imbandita. L’ultimo dei principi Nicolaci, l’erede dei baroni di Modica? Sì, all’anagrafe del sangue blu, ramo siculo. Ma siccome nemmeno la nobiltà campa d’aria, il convitato di pietra a un certo punto s’è tolto la maschera offrendoci un calice di Nero d’Avola prodotto nella cantina di famiglia. Sull’etichetta della bottiglia un nome inquietante: Lupara. Quante emozioni, cinquanta chilometri prima, tra le viuzze di Ortigia, la parte più antica di Siracusa. Ci saluta una scolaresca che non ha gradito lo scudetto della Signora: chi-non-salta-juventino-è. Ci viene incontro Malèna, come in un’apparizione, mentre attraversiamo la piazza del duomo sulla quale Giuseppe Tornatore fece ancheggiare la donna più bella e desiderata del paese. Renato, anche lui in bicicletta, la spiava, la seguiva, s’infilava nella sua casa per rubarle ogni giorno un capo di biancheria intima stesa nel giardino. Indimenticabile Bellucci. <Qui è la chiave di tutto>, scriveva Goethe da Palermo. E descriveva la Sicilia deposito immenso di sensualità.  All’alba del quarto giorno la compagnia è su di giri: gente tosta, abituata a pedalare sul Brinzio. La montagna con la chioma bianca non è il Mottarone, ma “Iddu” che da un momento all’altro può mettersi a fumare lanciando cenere sul bagnasciuga. Già, fin lì. Non si perde di vista un secondo l’Etna . Spunta da un cespuglio di pistacchi, svetta su una distesa di ginestre, si mette in posa dietro ai ficodindia. E’ lassù che dobbiamo arrivare, allo Stelvio del Sud, quasi duemila metri di quota, ma partendo da un pacifico ground zero. Quanta acqua in una terra che si è solito immaginare arsa. Quanta campagna sterminata, ondulata, pettinata tra le province di Caltanissetta ed Enna. Non s’incontra un’anima, eppure ci dev’essere qualcuno che fatica, magari di notte, per mantenere quell’ordine svizzero. Il lago Pozzillo, in fondo a una valle, dalle parti di Regalbuto, potrebbe sembrare una cartolina dall’Alto Adige se ci fossero le conifere. La strada verso Adrano e Bronte prima scende, poi s’impenna. Cristo s’è fermato a Eboli, ma se avesse proseguito avrebbe scelto Leonforte per dissetarsi a una maestosa fontana barocca e per descrivere contadini di antica sapienza e paziente dolore. La tappa di un viaggio al principio del tempo.

Com’è dura la salita. — Fine della poesia alle dieci del mattino del sesto giorno: cominciano i tornanti sopra Zafferana Etnea. “Ciao stile”, dicevano i vecchi ciclisti. Tradotto: d’ora in poi conta solo non mollare, il resto è roba da filosofi. Percorso vigliacco: ti affascina con scorci sublimi, ti invoglia con falsi piani afrodisiaci, poi, di punto in bianco, ti mette un coltello nel costato. Inutile fingere di non vedere il compagno che sembra averne di più. La frase di circostanza “io vado col mio passo” è una balla grossa come una casa. Nemici mai, in bicicletta, rivali sempre in una guerra psicologica non dichiarata, anzi negata. Il diario di bordo prevede due ore e venti di ascensione, pena minima, e 1310 metri di dislivello. Asfalto buono, cielo coperto, per fortuna, nessun cartello che dica tra quanto finisce l’autoflagellazione. Sai che sulla carta sono venti chilometri prima di scollinare al rifugio Sapienza nel mare nero del vulcano più ribelle d’Italia. Morale: nessun disperso, tutti in cima con le proprie gambe. Baci e abbracci, fotografie e sfottò. Poi giù a rotta di collo per 30 chilometri. Traguardo in una gelateria sul lungomare di Catania. Personaggi e interpreti della commedia, ciascuno col suo nome di battaglia: Mariano lo schiacciasassi, Paolo il pivot, Mario nonno Libero, Mimmo il juke box, Vittorio la locomotiva, Carmelo il reduce, Roberto il freddo, Daniele la pantera rosa. L’autore di queste righe si rifugia in Pirandello: uno, nessuno, centomila (Gianni Spartà, In sella alla Sicilia, Lombardia Oggi 10 giugno 2012, pp. 12-15).

 Giro in bici della Sicilia Orientale

lun 07.5.12 Catania-Noto km 120 m 1300

mar 8.5 Noto-Scoglitti km 120 m 900

mer 9.5 Scoglitti-San Leone (Ag) km 115 m 1100

gio 10.5 San Leone (Ag)-Piazza Armerina  km 100 m 2000

ven 11.5 Piazza Armerina-Bronte km 120 m 2300

sab 12.5 Bronte-Catania km 140 m 2500

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